I piedi. Quei piedi ripugnanti, scimmieschi, da nascondere a ogni costo, ma sempre pronti a seguire una donna, per avvicinarla poi con una scusa qualunque, sino a percepirne l’odore della pelle. A loro Ginpei pensa costantemente. Quelle estremità così sgraziate sembrano quasi poter rivelare la sua indole, il suo famelico appetito di bellezza.
E’ così che, un giorno, i suoi passi incrociano per caso quelli di Miyako. Intimorita e, al tempo stesso, stregata in modo sotterraneo dall’incontro, non può fare a meno di riviverlo in sé, ancora e ancora. I pedinamenti degli sconosciuti, infatti, costituiscono una delle scarsissime fonti di appagamento nella sua monotona routine di venticinquenne concubina alle dipendenze di un vecchio misogino assillato dall’idea della giovinezza che sfugge e che, volontariamente, gli sfugge (ama, infatti, crogiolarsi nella gelosia provocata dalle attenzioni di ignoti verso la sua amante).
Kawabata Yasunari è – come già visto ne La casa delle belle addormentate – maestro nel manipolare una materia narrativa e, soprattutto, umana complessa. Anche qui, nel suo romanzo Il lago (trad. di Lydia Origlia, Guanda, 2015, pp. 189, € 8,50), lo scrittore si muove con estrema abilità al limite fra sensualità, lirismo e attrazione per il morboso, senza mai scadere nel volgare o in un erotismo dozzinale.
I fili che s’intrecciano in quest’opera – all’insegna della sofferenza, della passione, della mania – rischiano sempre di strangolare Ginpei il perseguitore, a sua volta perseguitato dalle menzogne, dalle allucinazioni e dai fantasmi creati dalla sua mente, che infestano il presente senza tregua. Il suo pensiero corre spesso a un lago lontano dell’infanzia – quello del primo lutto, degli affetti acerbi – che, nella scrittura di Kawabata, sa trasformarsi in una metafora (neppure troppo velata) di un’interiorità torbida e mai quieta:
La ragazza continuò a ignorarlo. Il pendio terminava in un erboso terrapieno folto di tenere erbe, tra cui ora lei e il suo cane s’inerpicavano. Sul lato opposto era in attesa un giovane uomo, uno studente. Quando Ginpei vide che la fanciulla tendeva la mano e stringeva quella dello studente, ne fu a tal punto sbigottito da provare un senso di vertigine. Approfittava dunque della passeggiata per incontrare il suo amante! Ed era l’amore a rendere i suoi occhi neri così umidi e splendenti. La scoperta improvvisa gli paralizzò la mente, e quegli occhi si tramutarono in un lago nero. Avvertì uno strano, nostalgico desiderio misto a disperazione, di nuotare in quei limpidi occhi, di immergersi nudo in quel nero di tenebre.
Poiché di dettagli e ricordi si nutrono le ossessioni (come quella per la figura della madre) di cui le vite dei personaggi sono piene, la storia è ricca di particolari – il colore dell’incarnato di una ragazza, l’impressione lasciata dalle lucciole in volo – capaci di sconvolgere, seppur minimi.
Nell’istante in cui si erano incrociati, l’uomo si era fermato a guardarla, come trafitto dal dolore per lo splendore dei suoi capelli e la pelle delle orecchie e della nuca: anche senza vederlo Miyako aveva intuito che all’uomo, dopo quel grido, si era offuscata la vista e avea rischiato di cadere. “Ah…!” Nell’istante in cui aveva percepito quell’inudibile urlo, s’era voltata fissando il volto prossimo alle lacrime dell’uomo, aveva capito che non avrebbe potuto non seguirla. Egli le era parso consapevole della propria tristezza, perduto in un mondo separato. Non esisteva motivo per cui Miyako dovesse perdere la propria identità, ma aveva avuto l’impressione che un’ombra sfuggita da quell’uomo si fosse insinuata in lei.
Per paradosso, proprio questo slittamento sembra consentire la dimensione più ambita del piacere: la sua irresistibile, straziante dolcezza si nasconde infatti negli abissi dell’animo, fra allucinazioni e tormenti.
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L’immagine di Roberto Manzoli è tratta dal suo sito.