Raramente capita di imbattersi in riflessioni acute sugli haiku che non siano state prodotte da studiosi di letteratura giapponese. Molti di coloro che si addentrano in questo campo senza le necessarie conoscenze finiscono, quasi inevitabilmente, per insistere sui medesimi concetti: la brevità fulminante, la vocazione zen dei versi, il carattere illuminante dell’attimo fissato per sempre…
E’ (anche) per questo che i quattro brevi saggi raccolti in Sull’haiku del poeta, critico e traduttore Yves Bonnefoy (trad. di Andrea Cocco, O barra O edizioni, 2015, pp. 92, € 15, in offerta a 12,75) mi hanno colpito. Brevi ma densissimi, i testi propongono inconsuete prospettive interpretative del genere poetico nipponico, facendo ricorso a un linguaggio suggestivo e pregnante.
E’, d’altronde, un’opera complessa, questa. Un’opera che, come ho già accennato, non si limita a ripetere una lunga serie di stereotipi e luoghi comuni: Bonnefoy, infatti, parte dai fondamenti stessi della filosofia occidentale – la Parola, lo Spazio, il Tempo, l’Assoluto – per mostrare non solo la loro distanza da quelli giapponesi, bensì (e, forse, soprattutto) per polemizzare sottilmente con le categorie ideologiche, linguistiche, culturali che ci sono proprie e che rischiano di influenzare (quando ancora non pregiudicare) il nostro accostarci agli haiku. In loro,
il […] senso non si riduc[e] a quel che vorrebbero le nostre troppo astratte categorie. Esso è, devo sottolinearlo subito, è con una serenità che già di per sé costituisce un pensiero difficilmente penetrabile.
Come mostra in maniera esemplare la produzione di Matsuo Bashō, si tratta, insomma di una esperienza di lettura profonda, proficua, capace di andare oltre una «teologia della parola», per metterci in contatto con la sostanza stessa della poesia.
L’immediato, nell’haiku, è proprio ciò che noi chiameremmo anche l’Uno, il tutto: ma percepito senza la coscienza di percepirlo. Vi si respira. Vi si è respirati.
Se la prima metà del volume è consacrata prettamente all’analisi dello haiku in sé, nella sua specificità, la seconda invece si concentra soprattutto sul confronto con la grande tradizione letteraria europea, sull'(im)possibilità di tradurlo fedelmente e pedissequamente:
[d]isperato è il compito dei traduttori di Bashō, di Issa, di Shiki, e la loro ostinazione va apprezzata. Ma difendiamoci anche dall’idea che si debba necessariamente tradurre. O piuttosto, che l’essenziale del compito del traduttore stia nel trovare le parole che sostituiscano per noi le diciassette sillabe.
Per godere appieno dello haiku, in conclusione, è necessario abbandonare ogni rigidezza: solo lasciandoci attraversare e carezzare senza resistenze è possibile afferrarne non solo il senso e la bellezza della lingua,ma anche l’«”assoluto silenzio” che la penetra con la sua luce».
Immagine tratta dal sito BASHO in Art, Sculpture & Verse.