Se dovessi abbinare un’immagine a La madre del Comandante Shigemoto di Tanizaki (traduzione di A. Maurizi, prefazione di G. Amitrano – che vi consiglio di leggere una volta terminato il libro -, Einaudi, pp. 180, € 18, ora in offerta a 13,50), non sceglierei un’antica illustrazione che ritrae una dama rivestita di preziose stoffe o tantomeno un nobile immerso nelle bellezze del suo ricco palazzo, sebbene il periodo Heian (794-1185) e la sua corte costituiscano lo sfondo del volume.
Preferirei, credo, la semplicità dell’ensō, simbolo dell’illuminazione e per certi versi della stessa estetica giapponese, cerchio sacro del buddhismo – eppure il testo, sia chiaro, ha poco a che vedere con la spiritualità, ritenuta ultimo espediente contro le tentazioni di una carne che non sa riposare e di una natura passionale incapace di placarsi.
Un unico, perfetto tratto di pennello per raffigurare una circonferenza, un vuoto attorno al quale si coagula brillante l’inchiostro: questa è forse per me, infatti, la migliore rappresentazione della struttura stessa de La madre del Comandante Shigemoto, che ha al suo centro la presenza-assenza di Donna Ariwara, Signora dell’ala nord. Di lei non sappiamo nulla se non quello che ci rivelano gli altri personaggi attraverso le loro parole e i loro gesti: seducente e raffinatissima, con la sua irresistibile grazia riesce a ammaliare gli uomini che a lei si accostano, sin quasi a stravolgerne l’esistenza.
Eppure, colui che sembra maggiormente sottostare al suo fascino è solo un bambino, il futuro comandante Shigemoto, figlio di primo letto avuto dall’anziano Fujiwara no Kunitsune: costretto a separarsi da lei in tenerissima età a causa di un incredibile atto di prepotenza compiuto dall’altolocato Shihei, rimarrà per tutta la vita straziato dalla “nostalgia della madre”, tanto per richiamare un altro titolo della produzione dello scrittore nipponico.
D’altronde, i temi tanto amati da quest’ultimo – come l’aspirazione alla “«donna unica ed eterna» [che] contiene in sé maternità e seduzione”, il feticismo, il culto del passato – sembrano ritrovarsi in quest’opera che vide la luce nei medesimi anni (1949-50) in cui Tanizaki era impegnato con le traduzioni del Genji monogatari, capolavoro della letteratura estremo-orientale composto nell’XI secolo.
Unendo la meticolosità della ricostruzione storica alle libere (ma sempre sorvegliatissime) invenzioni della fantasia, l’autore riesce a creare una prosa imbevuta di eleganza e sensualità, capace di donarci l’illusione di ascoltare, tra paraventi e cortine profumate, leggendarie, struggenti storie d’amore, lontananza e dolore.
Immagine tratta da qui.
Molto interessante. Fa venire voglia di leggerlo subito.
Speravo proprio in una recensione positiva del libro di Tanizaki e, anche se non posso farlo vedere, sto idealmente battendo le mani per la contentezza! Non c’è bisogno di avvisare chi già conosce Tanizaki, naturalmente, ma è stato bene sottolineare che non ci si deve solo aspettare “eterea bellezza” dalle sue parole, ma anche cruda prepotenza, violenza, se vogliamo, sia pure descritta nei modi che i nobili Heian potevano concepire. Tanizaki non ha pudori e descrive anche certe forme di feticismo e di ossessioni che potrebbero infastidire la lettura, se vogliamo, ma nello stesso tempo non si può fare a meno di cogliere la sua grandezza proprio per questa sua capacità di scandalizzare tuttoggi le nostri menti che crediamo ormai disincantate. Ho finito di leggere La madre del comandante Shigemoto giusto l’altro ieri ma, dopo la tua recensione, credo che lo riprenderò in mano per poter riassaporare quei passaggi letti di fretta per eccesso di avidità…