Una partenza per il Giappone inattesa. Un viaggio che cambierà la sua vita, e poi il dolore, la confusione, l’incertezza del terremoto dell’11 marzo 2011: ecco quello che accade a un ragazzo come tanti, Ennio, protagonista di Sparire di Fabio Viola (Marsilio, 2013, pp. 288, € 17,50).
L’autore – che nel Sol Levante ha vissuto per diversi anni – ci ha voluto regalare un brano: a lui mille grazie e a voi buona lettura.
Man mano che mi lasciavo alle spalle il quartiere di Gerald e mi avvicinavo al centro lo scenario si faceva più critico. Una sopraelevata era crollata di lato su un palazzo, sventrandolo. Da un appartamento all’apparenza integro, accanto al margine della porzione di sopraelevata collassata, vidi persone che si calavano in strada con una corda. Con un’altra venivano calati bambini e animali. L’interno delle case sventrate era umile. Appartamenti arredati con poche e vecchie cose, scatoloni e pile di carte e riviste negli angoli, merletti sui tavoli e tende sintetiche macchiate dagli anni, enormi televisori a cristalli liquidi incastrati in mobili da rigattiere, impianti da home cinema e consolle per videogiochi, materassi lisi e tovaglie a fiori di trent’anni fa. Colonne di fumo solcavano il cielo plumbeo e sfumavano nelle nuvole come se da lì originassero, mentre giù, a terra, macchine dei vigili del fuoco impazzivano nelle strade deserte e dissestate, le sirene spiegate in un orrendo pianto elettronico.
Raggiunsi il ponte di Taisho, con l’arena sportiva dell’Osaka Dome sulla sinistra, intatta, nei cui ampi parcheggi stavano già allestendo rifugi e punti di assistenza. L’acqua dei canali che si incrociavano a Taisho pareva quella di un torrente in piena, scossa da onde e da una corrente che quei corsi artificiali non avevano mai conosciuto. Le increspature erano quelle di un milione di sassi gettati insieme nell’acqua. Un tuono improvviso annunciò un’altra scossa, che arrivò puntuale qualche istante dopo facendo oscillare il ponte come fosse di gomma. Provai ad attraversarlo di corsa ma inciampai. Di nuovo urla ovunque.
Rimasi immobile sul selciato finché il rombo non finì.Quando ripresi la strada verso il centro mi accorsi che molte delle vecchie case di legno e lamiere che costeggiavano il fiume, costruite a picco sugli argini, erano rovinate in acqua. Un bagno, esposto nella sua ceramica nudità. Sezioni di armadi con il loro triste contenuto. Divani in procinto di precipitare nel fiume.Mi misi a correre. Il freddo si faceva più intenso col passare dei minuti, e il cielo più scuro, mentre vaste porzioni della città erano ancora al buio. Le insegne spente, i semafori ciechi, i negozi con le vetrine sfasciate. Correvo tra i piloni della sopraelevata della via Sennichimae, un’immensa struttura di cemento e ferro che teneva in ombra la strada sottostante a tutte le ore. Quando arrivai al palazzo di vetro della Hoshi – mi ci ero diretto inconsciamente – ci fu un altro tuono, stavolta atmosferico. Vidi gruppi di insegnanti seduti per terra nello slargo antistante l’ingresso del terminal degli autobus, macchie organiche tra le lamiere dei taxi in sosta e gli ammassi plastici dei palazzi. Non riconobbi nessuno.
Credits foto: AP Photo/The Yomiuri Shimbun, Shuhei Yokoyama (immagine tratta da OregonLive)