attentato tokyo Aum Shinrikyō Tokyo, 20 marzo 1995, un lunedì qualsiasi: cinque persone salgono in altrettanti convogli della metropolitana, in cinque diverse stazioni. Sono vestite come tutti, si muovono come tutti, si confondono con facilità in una folla di lavoratori, studenti, cittadini qualunque.

Sono membri della setta Aum Shinrikyō e portano con sé un sacchetto di sarin, un potente gas nervino, ufficialmente riconosciuto arma chimica di distruzione di massa. Al momento stabilito, circa alle 8 del mattino, entrano in azione – bucano i contenitori e li abbandonano nei vagoni -, per poi fuggire vigliaccamente. Il bilancio dell’attentato sarà di tredici morti e seimilatrecento vittime tra feriti e individui rimasti segnati a vita dalle inalazioni.

Murakami Haruki, turbato e incredulo, nel 1997 ha voluto dedicare un volume alla vicenda, Underground (trad. di A. Pastore, Einaudi, pp. 450), in cui ha raccolto le sue interviste a numerosi personaggi coinvolti in diverso modo nell’accaduto (militanti della setta, superstiti, testimoni…). Un libro lucido, imbevuto in ogni pagina di dolore e rispetto. Un libro duro, sincero, sulla banalità del male e sulle sue fatali conseguenze.

Un pomeriggio ho preso in mano una rivista che si trovava sul tavolo e ne ho sfogliato a caso le pagine. Letti sommariamente alcuni articoli, ho dato un’occhiata alle lettere che l’editore aveva scelto di pubblicare tra quelle inviate dai lettori. Non ricordo perché l’abbia fatto. Una semplice curiosità, credo. O forse avevo del tempo da perdere. Mi succede raramente di interessarmi a una rivista femminile, o di leggere la rubrica della corrispondenza. Una delle lettere era di una signora il cui marito aveva perso il lavoro a causa dell’attentato al sarin nella metropolitana di Tokyo.

L’uomo si stava recando in ufficio, quando per sfortunata coincidenza era rimasto intossicato dal gas. Trasportato privo di sensi all’ospedale, era stato dimesso dopo alcuni giorni, ma per colmo di sventura l’intossicazione gli aveva lasciato dei postumi che non gli permettevano di svolgere il suo lavoro come prima. All’inizio tutti avevano chiuso un occhio, ma col passare del tempo superiori e colleghiavevano incominciato a mostrare irritazione e insofferenza. Incapace di sopportare oltre l’ostilità dell’ambiente, il marito della lettrice aveva finito col dare le dimissioni, ma praticamente – riteneva – era stato cacciato via.Non avendo più sottomano la rivista non ricordo le parole esatte, ma grosso modo il succo del discorso era questo. Per quel che mi ricordo, non c’era nella lettera un pathos particolare. E nemmeno rabbia. Direi piuttosto che il tono era tranquillo, o forse ‘querulo’ rende meglio l’idea. Vi si avvertiva un senso di smarrimento, «perché mai è accaduto tutto questo?» sembrava chiedersi la lettrice. Quasi fosse ancora incredula, incapace di accettare quell’improvvisa, drammatica svolta del destino.

La sua lettera mi ha molto turbato. Com’era possibile che fosse successa una cosa del genere? Inutile dire che la ferita morale di quella signora mi addolorava profondamente. «Mi dispiace davvero», pensavo in tutta sincerità, pur rendendomi conto che le espressioni di rammarico non bastavano a risarcire nessuno.Ma cosa potevo fare lì per lì, su due piedi? Con un sospiro ho chiuso la rivista e sono tornato alle mie occupazioniquotidiane e al mio lavoro. La reazione che avrebbe avuto la maggior parte della gente, presumo.

Passato qualche tempo, tuttavia, quella lettera mi è tornata in mente a proposito di non so più cosa. Quel «perché mai…?» non se ne voleva andare dalla mia testa. Era una domanda cruciale.Non bastava che le sfortunate vittime del sarin avessero subito le conseguenze pure e semplici dell’attentato? Perché dovevano anche patire ingiuste sofferenze ‘di secondo grado’ (in altre parole, la violenza generata dalla nostra iniqua società, che vediamo ovunque intorno a noi)? Nessuno poteva impedire che questo accadesse?

Ecco quanto sono venuto a pensare riguardo alla doppia violenza inferta a quel giovane e sfortunato impiegato: suppongo che la distinzione tra ciò che appartiene al mondo della normalità e ciò che non vi appartiene, che la gente di solito è in grado di fare, non significhi più nulla per lui. Probabilmente non riesce a distinguere i due generi di violenza e a considerarli in termini di ‘estraneità’ e ‘appartenenza’. Anzi, più ci pensa, più si convince che i due episodi differiscono nella forma esteriore, ma sono in realtà della stessa natura, nascono entrambi da radici sotterranee.Mi è venuta voglia di conoscere la donna che aveva scritto quella lettera – tutte le donne che avevano scritto delle lettere. Di incontrare personalmente suo marito – tutti i mariti. E di capire meglio come funzioni questo nostro sistema sociale, capace di infliggere una doppia ferita di tale gravità.

Murakami Haruki, Underground

Foto: Tokyo Shimbun/Corbis

1 commento il “Underground” di Murakami Haruki: ricordando l’attentato a Tokyo di Aum Shinrikyō

  1. Libro veramente molto particolare questo di Murakami, una vera e propria inchiesta, come l’autore specifica nell’introduzione. L’ho letto alcuni anni fa e l’ho trovato estremamente interessante e lo consiglio perchè è una splendida occasione anche per comprendere alcune complessità della società nipponica.
    Nell’attentato sono morte 12 persone, ma moltissime altre, intossicate dal gas, hanno subito conseguenze per tutta la vita. Ciò che colpisce è la lentezza di reazione al dramma, come lo stesso Murakami fa notare, cosa che credo però sarebbe stata comune in qualsiasi altra capitale del mondo. Ma l’autore fa anche notare l’incomprensibile volontà, conscia o inconscia, di rimozione di quei drammatici fatti dalla coscienza collettiva, cosa che lui stesso suggerisce come “inquietante”.

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