Il sole splendeva luminoso sul fiume e la stanza da otto tatami ne era come infuocata. I raggi riflessi dall’acqua disegnavano onde dorate sul viso della ragazza profondamente addormentata e sulla carta degli shōji. Seikichi chiuse gli scorrevoli della stanza e prese gli strumenti da tatuaggio, ma poi rimase seduto per un bel po’ in estasi. Per la prima volta poteva assaporare in pace la bellezza conturbante della donna. Pensò che sarebbe stato capace di starsene lì a contemplare quel volto immobile anche per dieci, cento anni. Come l’antico popolo di Melfi abbellì con piramidi e sfingi la maestosa terra d’Egitto, così Seikichi avrebbe dipinto con la sua passione quella pura pelle di donna.
Dopo un po’ le denudò il dorso, e con l’ago che aveva nella destra cominciò a pungere la pelle attraverso le setole del pennello tenuto tra il pollice, l’anulare e il mignolo della sinistra, e che aveva appoggiato sulla schiena della ragazza. Lo spirito del giovane tatuatore si stemperava nell’inchiostro di china e penetrava nella pelle. Le gocce di cinabro delle Ryūkyū che, mescolate a alcol, venivano lentamente iniettate erano gocce della sua stessa vita. Quello che vedeva era il colore della sua anima.
Ben presto fu mezziogiorno senza che se ne accorgesse, e poi la quieta giornata di primavera si avviò lenta al tramonto: la mano di Seikichi non si era mai concessa tregua e il sonno della ragazza proseguiva ininterrotto. A chi era stato mandato a chiedere il perché del ritardo della ragazza nel rientrare fu risposto, per mandarlo via, che se ne era già andata da un bel po’. La luna era alta nel cielo al di là della riva sopra la villa del signore di Tosa e inondava le case del suo chiarore di sogno: ma il tatuatore non era neppure a metà del suo lavoro, e trovava solo il tempo per ravvivare la candela.
Inserire anche una sola goccia di colore era uno sforzo, e a ogni trafittura Seikichi traeva un profondo sospiro come se fosse stato colpito al cuore. Lentamente i segni lasciati dall’ago prendevano la forma di un enorme ragno e quando infine la tenue luce dell’alba cominciò a penetrare nella stanza, quella diabolica figura allungava le sue otto zampe ad abbracciare la schiena della ragazza.
La notte primaverile si dileguava allo sciabordio dei remi delle chiatte che risalivano e discendevano il fiume. Nella foscia che s’andava diradando al di sopra delle bianche vele gonfie della brezza mattutina, le tegole dei tetti di Nakasu, Hakozaki, Reiganjima mandavano i primi bagliori.
Seikichi, posato finalmente il pennello, si mise a contemplare la forma dell’enorme ragno tatuato sulla schiena della ragazza. Quel tatuaggio era tutta la sua vita. Dentro, adesso che aveva finito, gli restava il vuoto.
da Tanizaki Junichirō, Pianto di sirena e altri racconti (trad. a cura di Adriana Boscaro, Feltrinelli)
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