Al liceo, sulle pareti della mia aula, campeggiavano due massime: qui, “Non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita per consentirti di esprimere le tue idee” (erroneamente attribuita a Voltaire), lì “Sapere aude” (“abbi il coraggio di conoscere”, aforisma oraziano ripreso anche da Kant). Nel mezzo, le mie perplessità di quindicenne e lunghi anni di oblìo.

Poi, qualche giorno fa, queste parole sono riemerse d’improvviso alla mia memoria, appena terminata la lettura de La nobile tradizione del dissenso di Susan Sontag e Ōe Kenzaburō (trad. a cura di P. Dilonardo; Archinto, € 10; ora in offerta su Amazon.it a € 8,50 cliccando qui), che riunisce la breve ma densissima corrispondenza tra gli scrittori, sviluppatasi tra la primavera e l’estate 1999. 

Sin dalle prime battute, si delineano bene i caratteri dei due, a tratti opposti: da un lato, la saggista americana, energica, indignata con gli indifferenti, a volte persino polemica; dall’altro, il premio Nobel giapponese, placido al limite della malinconia e preoccupato per le sorti del suo paese, che vede minacciato da un’ondata di ultranazionalismo e dalla scomparsa di un clima culturale fecondo, conseguenti all’indebolimento dello stato e della famiglia nipponica. Approfittando di queste condizioni, i conservatori e i fanatici religiosi (il pensiero corre subito ai membri dell’Aum Shinrikyo, setta religiosa nipponica resasi tristemente famosa per l’attentato alla metropolitana di Tokyo del 20 marzo 1995) stanno man mano conquistando terreno e consensi, a scapito dei liberi pensatori. Consapevole di appartenere a una generazione oramai incapace di mutare il disastroso corso delle cose – la stessa generazione protagonista e vittima della seconda guerra mondiale, dell’occupazione americana, dei moti di protesta degli anni Sessanta -, il romanziere rivela gli intenti politico-sociologici della sua attività letteraria e confida nella venuta di un uomo nuovo, all’altezza delle difficili questioni da risolvere.

Ma in che modo possono gli intellettuali – si chiedono la Sontag e Ōe – intervenire nei contesti più problematici e tentare di fornire un contributo utile, senza però apparire autoreferenziali? “Come liberarsi dell'<<io>>, anche se è attraverso l'<<io>> che sappiamo tutto ciò che sappiamo” (p. 19)? La scrittrice crede che, per raggiungere lo scopo, sia innanzitutto necessario vivere lo “shock del reale”: soltanto chi ha maturato esperienza in prima persona riguardo ciò di cui parla o scrive può  comprendere e agire con responsabilità, schivando luoghi comuni e comode quanto sterili prese di posizione a priori. E la Sontag, che ha di propria volontà risieduto in Vietnam, in Jugoslavia e in Albania durante l’epoca dei conflitti, ben lo ha dimostrato.

La letteratura ha un grande compito, portato avanti con solerzia e fatica dagli autori delle due sponde dell’oceano: “formulare appelli alla coscienza, alla consapevolezza morale, perché cresca l’indignazione per le ingiustizie e la compassione per le vittime” (p. 46). Ogni opposizione, ogni lotta – anche se solo esclusivamente intellettuale – comincia con un ‘no’: è questa la radice della “nobile tradizione del dissenso”, che si nutre non solo di buone intenzioni, ma soprattutto di fatti, di dati, di verità, per quanti parziali essi siano.

E ogni gesto, seppure minimo, in grado di dar rilevanza a una voce o consistenza a un’opinione, deve essere tentato: perché, come ricorda Susan Sontag, nel bene o nel male, “anche non fare, è fare qualcosa”. Sempre.

4 commenti il Il coraggio di dire no: “La nobile tradizione del dissenso” di Susan Sontag e Ōe Kenzaburō

  1. Scusa, ma se non è di Voltaire di chi è la frase? Grazie per la segnalazione del libro, Kenzaburo è tra i miei preferiti.

  2. @Ilaria e Alessandra: felice di avervi incuriosito.

    @Nico:

    ” […] Ma tagliando corto, il signor di Ferney non ha mai detto simile frase. Come mai allora gliela si attribuisce?
    La sola versione nota di questa citazione è quella della scrittrice inglese Evelyn Beatrice Hall, « I disapprove of what you say, but I will defend to the death your right to say it. », The Friends of Voltaire, 1906, ripresa anche nel successivo Voltaire In His Letters (1919).
    Per chiudere la storia di questa falsa citazione, Charles Wirz, Conservatore de “l’Institut et Musée Voltaire” di Ginevra, ricordava nel 1994, che Miss Evelyn Beatrice Hall, mise, a torto, tra virgolette questa citazione in due opere da lei dedicate all’autore di « Candido», e riconobbe espressamente che la citazione in questione non era autografa di Voltaire in una lettera del 9 maggio 1939, pubblicata nel 1943 nel tomo LVIII dal titolo “Voltaire never said it” (pp. 534-535) della rivista “Modern language notes”, Johns Hopkins Press, 1943, Baltimore.”
    Ulteriori info: http://lafrusta1.homestead.com/fili_voltaire.html

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