Di solito, non festeggio l’8 marzo.
Mi è sempre parsa una giornata di false promesse e di buoni propositi (tanto da parte femminile, quanto maschile, intendiamoci), puntualmente disattesi, riguardo la dignità e la promozione sociale delle donne, il sostegno alla maternità, l’impegno contro la violenza e via discorrendo.
Non a caso, quando ho letto questo brano della scrittrice nippo-americana Yamamoto Hisaye, l’ho subito apprezzato. Per la sua schiettezza intellettuale (quanti, ancora oggi, avrebbero il coraggio di criticare Gandhi?), per la sana indignazione contro i perbenisti e, soprattutto, per la cruda sincerità.
Perché ciascuna di noi – come la protagonista, come tutte le donne del racconto – custodisce in sé il ricordo di una qualche ferita il cui senso, inesorabilmente, sfugge.
C’era un uomo a teatro con mani che palpavano. C’era un uomo sul tram con cosce insistenti. C’era un uomo che sogghignava trionfante e si allontanava a passo veloce dopo aver seguito una a distanza giù per una strada piovigginosa al crepuscolo e infine essere riuscito nel suo scopo di cacciarle all’improvviso una mano sotto l’impermeabile.
Me ne ricordai mentre raccoglievo le viole, le portavo a casa di Margarita, tornavo a casa mia, andavo ad aprire la porta, ricevevo le amarillidi, le calle, i garofani, e mentre li sistemavo nel vaso di vetro blu sul buffet. Mi ricordai di un altro uomo, Mohandas Gandhi, probabilmente estraneo a questa combriccola, non soltanto perché avevo letto solo da poco qualcosa su di lui, ma anche perché appariva come l’unica autorità irreprensibile che fosse mai stata chiamata a dare consigli in pubblico a questo riguardo. Quando qualcuno aveva chiesto timidamente a Gandhi “Cosa dovrebbe fare una donna quando viene assalita da malviventi?”, nominando l’alternativa tra l’autodifesa violenta o la fuga immediata, lui aveva risposto: “A mio parere, non si può mai essere preparati alla violenza. Tutta la preparazione deve essere diretta alla nonviolenza se si vuole coltivare un genere di coraggio più elevato. La violenza può essere tollerata solo perché è sempre preferibile alla codardia. Perciò io non terrei una barca pronta alla fuga…”. Poi proseguì con discorsi alati sulle nobili implicazioni della nonviolenza, rimproverando al mondo la sua codardia nell’armarsi di bomba atomica.
Io capii. Quando lessi queste parole la prima volta pensai “Be’, certo”, sorridendo dei futili allarmismi di certe persone. Ma avevo letto quelle in un periodo in cui l’animo era sgombro, dimentico di Mary [che era stata minacciata di stupro alla fermata dell’autobus], dimentico delle scarpe con i tacchi alti [che la protagonista vede indosso a un uomo nudo che adesca vittime per strada]. Ora conclusi che l’insegnamento che quelle parole diedero a chi aveva posto la domanda, probabilmente una donna, fu di nessun valore. Tra tutti gli uomini in odore di santità, Gandhi, sulla base delle sue stesse dichiarazioni, avrebbe dovuto essere il più adatto a fornire il conforto più concreto all’argomento. Ma aveva evaso il problema. Invece dell’esempio concreto, parole vaghe. Gandhi, di fronte all’onnipresente paura femminile, era un fallimento. Tutto ciò che aveva detto in realtà era: non ci pensate proprio. Poi (suppongo), alzando la sua forte mano sicura e ossuta, aveva scosso lentamente avanti e indietro la sua bianca testa arruffata dalla forma compatta e si era rifiutato di ascoltare i se e i ma. Il resto, come si dice, è silenzio.
Yamamoto Hisaye, Le scarpe con i tacchi alti. Un ricordo (1948), racconto pubblicato in Diciassette sillabe (trad. a cura di Roberto Cruciani), Avagliano, pp. 12-13.
Foto tratta da qui.
Domani condividero’ questo splendido post. Grazie dello sguardo diverso sulle cose che ci hai donato.
Nessuno avrebbe potuto mettere meglio in parole ciò che penso. Neanche io ho festeggiato mai l’8 marzo.
Non c’è bisogno di 8 marzo per apprezzare questo bel racconto. Grazie!